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Il termometro della crisi
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Dicembre 2013
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Meno produzione, meno petrolio
L’andamento del settore energetico riflette fedelmente quello dell’intera economia. Nell’ultimo trimestre le raffinerie europee, che già soffrono di un’eccessiva dimensione degli impianti rispetto alla domanda, hanno ridotto ulteriormente la produzione scendendo ormai a due terzi della loro capacità produttiva. Solamente le difficoltà in cui versano Libia, Iraq, Nigeria e Siria, che hanno visto crollare le proprie esportazioni di greggio, hanno consentito ai produttori arabi dell’OPEC di non abbassare il tetto dell’estrazione allo scopo di scongiurare un eccesso di offerta.
Il Venezuela, negli ultimi 5 anni, ha visto dimezzarsi il suo export di petrolio: da 1.400 migliaia di barili al giorno nel 2008 a sole 700 migliaia nel 2013. Il governo venezuelano è stato costretto a svalutare del 40% il bolivar, la moneta nazionale, per favorire l’esportazione di petrolio ma così facendo, Caracas rende più costose le sue importazioni di macchinari e soprattutto di derrate alimentari e medicinali, di cui il paese latinoamericano è importatore netto. Le politiche sociali su cui si basa il consenso ereditato da Chavez, che erano consentite dalla redistribuzione di una quota dei proventi della vendita del petrolio, non saranno più praticabili.
Anche in Cina il capitale distrugge la fonte del valore
La cinese Foxxon, la principale fabbrica di microelettronica del mondo, quella famigerata per i numerosi casi di suicidio tra i suoi operai, ha annunciato di voler automatizzare la maggior parte possibile della propria produzione con un milione di minirobot. Non è che l'ennesima manifestazione di una delle leggi che regolano il funzionamento della produzione su base capitalistica: sostituire lavoro vivo con lavoro delle macchine. Anche nei paesi di nuova industrializzazione, il capitale, come è naturale, riproduce le proprie innate contraddizioni: riduzione della fonte del plusvalore, compressione progressiva del tempo di lavoro necessario a riprodurre il salario, riduzione al minimo del plusvalore ricavabile dagli aumenti della produttività, caduta del saggio di profitto.
L'autovalorizzazione del capitale si è ridotta al minimo
Il profitto che un produttore di elettrodomestici ricava dalla vendita dei propri prodotti si aggira oggi intorno al 4%: per una lavatrice il profitto è di soli 12-15 euro. Anche la delocalizzazione della produzione, allo scopo di ridurre il prezzo della forza lavoro, non risolve che momentaneamente e parzialmente il problema del capitalista: un frigorifero fabbricato in Italia o in Germania costa solo 25-30 euro in più di uno costruito in Polonia o in Ungheria. Ma il capitale in agonia si deve aggrappare anche a questa minima quota di plusvalore realizzato: la Elettrolux ha annunciato l'ennesima fuga verso l' est europeo che comporterà 2000 esuberi in Europa occidentale, di cui 200 nei suoi 3 stabilimenti italiani. Altri posti di lavoro in meno nel comparto degli elettrodomestici dove si registra anche la richiesta di cassaintegrazione per 1700 operai della Indesit. Tutto questo avviene perchè il valore che l'operaio aggiunge con il proprio lavoro al prodotto, non costituisce ormai che una minima parte del valore di quest'ultimo. Ma il valore che l'operaio aggiunge al prodotto rappresenta nello stesso tempo, nella sua quota non pagata all'operaio, la fonte del profitto. |
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Ottobre 2013
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La crisi colpisce anche i capitali più forti
Da alcuni mesi i dati sul declino dei fatturati, dei profitti e dell'occupazione riguardano anche le più grandi multinazionali del mondo. Solo per citare alcuni esempi, licenziano migliaia di lavoratori anche le imprese del “solido” capitalismo svedese la Volvo o la Electrolux, la seconda compagnia al mondo nel settore degli elettrodomestici. La Caterpillar, gigante mondiale delle macchine da costruzione e per miniere, vede dimezzati gli utili, in calo per il terzo trimestre consecutivo da 1,7 miliardi di dollari a 946 milioni, soprattutto a causa della riduzione degli investimenti delle compagnie minerarie. Ogni giorno che passa risulta più evidente che la causa della crisi risiede nella impossibilità da parte del capitale di ricavare nel processo lavorativo ulteriore plusvalore, sufficiente a sostenere il saggio di profitto. Ovvero di appropriarsi di altro tempo di pluslavoro.
Continua il declino del mercato dell'auto
Nel 2013 in Italia si saranno fabbricate non più di 400.000 automobili, il 3,1% in meno rispetto al 2012: il mercato è tornato ai livelli del 1958. La crisi riguarda anche il settore della componentistica che pur esportando o producendo per case estere dipende soprattutto dalla produzione nazionale.
Le case automobilistiche annunciano che chiuderanno almeno la metà dei concessionari e si attrezzeranno per la vendita diretta, senza intermediari: altre migliaia di posti di lavoro in meno.
Ma la crisi è globale: Volkswagen (che come è noto è anche Audi, Scania, Man, Bentley, Seat e Skoda) ha dichiarato poche settimane fa un calo degli utili del 50% e chiudono fabbriche anche Renault e Peugeot-Citroen in Francia, Opel in Germania e Ford in Belgio. Non sembra reggere più nemmeno il mercato di fascia alta: BMW comunica una caduta del 4% dei profitti nel terzo quadrimestre. Questi dati devono spingere gli operai a chiedere conto di quanto dicono i vari sindacalisti nostrani che indicano sempre come esempio la Germania ed imputano i cali delle vendite della Fiat alla mancanza di nuovi modelli, alla assenza di ricerca e sviluppo. Coloro che invocano investimenti in nuove tecnologie non sanno o fingono di non sapere che il Capitale va a morire proprio di tecnologia ed investimenti. |
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Settembre 2013
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Non ci sono locomotive che reggano La borghesia deve continuamente rassicurare l'opinione pubblica sulla imminente ripresa. Messi da parte i miracoli economici dei paesi BRICS, visti i loro impresentabili dati economici, in queste settimane erano tornate sulla scena le prestazioni, le performances, di Germania e Stati Uniti. Ma a guastare tutto arrivano i dati sull'occupazione negli USA. Il tasso di disoccupazione, se, come deve essere fatto, viene calcolato come percentuale della forza lavoro attualmente occupata è intorno all'11%; era al 7% nel 2009. Ma non basta: i dati del governo USA non calcolano i 7 milioni di persone che hanno smesso di cercare lavoro. Ed infatti l'ammontare dei sussidi di disoccupazione erogati dallo Stato è cresciuto negli ultimi quattro anni del 30% arrivando ai 10 milioni di dollari previsti alla fine di quest'anno. Ed i tagli al budget federale, annunciati nella prima settimana di ottobre, comporteranno la perdita di 810.000 posti di lavoro: un terzo del totale dei dipendenti dello Stato centrale. Negli stessi giorni il gigante multinazionale tedesco Siemens ha annunciato di vedersi costretta a mandare a casa 5000 dei dipendenti che occupa in Germania (2000 nella divisione industria, 1500 in quella dell'energia e altri 1500 in quella delle infrastrutture), più un'altra decina di migliaia occupati nelle sue filiali all'estero. Questa estate Volkswagen (che è anche Audi, Scania, Man, Bentley, Seat e Skoda) aveva denunciato la previsione di un calo del 50% degli utili per il 2013.
La crisi nella logistica Come è logico che sia, non c'è comparto dell'economia che venga risparmiato dalla crisi. I dati del comparto della logistica e trasporti sono lì' a dimostrare questa ovvietà ed anche come si debba evitare l'errore di parlare di un “nuovo modello di accumulazione basato sulla circolazione delle merci” e di “nuovo proletariato metropolitano” a proposito dei lavoratori del settore. Senza, con questo, voler togliere nulla all'importanza delle loro lotte. Negli ultimi tre anni le insolvenze (crediti non esigibili) sono triplicate raggiungendo il 10% del fatturato e più del 15% delle imprese hanno chiuso i battenti. Tutto questo malgrado la sostanziale stabilità del prezzo del gasolio per trazione, il regime favorevole di tariffazione minima obbligatoria (in violazione delle regole comunitarie), gli incentivi statali (l'ultimo, nell'aprile scorso, per 20 milioni di euro), gli accordi con l'ABI per la sospensione del pagamento dei mutui e l'erogazione di finanziamenti agevolati, l'assoluta deregolamentazione in materia di sicurezza e di trattamento economico della forza lavoro. Non è accelerando i tempi di consegna delle merci o accorciando le distanze dai mercati di sbocco che si crea capacità di consumo. L'accorciamento della “durata del periodo di lavoro del capitale circolante” può avere una ricaduta “sulle dimensioni del processo di lavoro….sull’aggiunta di nuove porzioni di capitale produttivo”, solamente se il processo lavorativo genera un adeguato saggio di profitto, “la forza motrice della produzione capitalistica”. |
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Agosto 2013
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E' finito il miracolo delle nazioni emergenti. I dati economici che provengono da tutte le economie cosiddette emergenti mostrano come si sia esaurita la fase di espansione che esse hanno conosciuto a partire dall'inizio del nuovo secolo. Il PIL della Russia, costituito per la quota determinante da materie prime energetiche e generato, in misura preponderante, per quanto riguarda i beni industriali da filiali di imprese occidentali, registra un arretramento da ben sei trimestri consecutivi. Quello della Cina è in discesa dal 2011 e quest'anno non raggiungerà il 6% dopo gli incrementi a doppia cifra segnati dalla fine degli anni '90. Il PIL indiano ha raggiunto il minimo degli ultimi dieci anni. Il Sudafrica quest'anno registrerà un crescita intorno al 2%. Si è chiuso ormai quel decennale ciclo espansivo indotto nelle periferie dagli investimenti delle nazioni del centro del capitalismo che ha avuto come principale fulcro lo sfruttamento del proletariato cinese. Il bassissimo costo della manodopera cinese aveva permesso ai capitali occidentali di trasformare il paese asiatico, in un primo tempo, in una gigantesca piattaforma di assemblaggio ed esportazione di beni di consumo a scarso contenuto tecnologico (elettronica di consumo, abbigliamento etc) e in un secondo tempo anche nel mercato di sbocco di beni di investimento strumentali prodotti in loco o importati. Questo processo, replicato su scala minore in altri paesi della periferia del mercato mondiale, aveva innescato un fortissima domanda di materie prime ed energetiche e trascinato nella fase espansiva altri paesi in quanto produttori ed esportatori di materie primarie industriali, energetiche ed alimentari. In ultima analisi, però, tutto il processo si fondava sulla capacità di domanda delle nazioni di antica industrializzazione e dunque sulla loro capacità di produrre nuovo valore. Con il venir meno di questa condizione, il ciclo “virtuoso” delle formazioni economiche dominate, si arresta.
La stagnazione mondiale del traffico delle merci. Il Baltic Exchange Index è un indicatore dello stato dell'economia mondiale calcolato sulla base della movimentazione delle merci trasportate per mare (circa il 90% di tutte le merci scambiate nel mondo). Nel momento considerato di picco della crisi in corso, nel 2009, l'indice aveva toccato il suo minimo, segnando un risalta dopo pochi mesi per raggiungere l'anno dopo meno della metà dei livelli del biennio precedente. Da allora l'indice ha ripreso a scendere per toccare nuovamente il livello minimo all'inizio del 2012 ma, a differenza di quanto avvenne nel 2009, senza più risalire. Sono dunque quasi due anni che il traffico mondiale di merci ristagna nuovamente ai livelli del punto di massima caduta del 2009. |
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