Il termometro della crisi



Ottobre 2014

La locomotiva tedesca “A trenta secondi dalla fine”.

 

Quello che era ampiamente prevedibile sta accadendo: l’industria tedesca riceve meno ordinativi, ad agosto la produzione è calata del 4%, le esportazioni del 5%. La “virtuosa” economia tedesca non vive di vita propria; il plusvalore delle merci si realizza in scambio con altro plusvalore. Se i principali partners commerciali della Germania non producono plusvalore, il plusvalore prodotto dall’industria tedesca non può realizzarsi sui mercati. E i principali mercati di sbocco dei prodotti industriali tedeschi sono i paesi europei (le esportazioni tedesche verso Austria e Svizzera sommate, superano quelle verso gli USA e quelle verso Olanda ed Austria sono, insieme, due volte superiori a quelle verso la Cina). Se la crisi ha tardato a manifestarsi in Germania questo è avvenuto solo perché le sue industrie hanno beneficiato, per un primo periodo, della crisi delle industrie straniere concorrenti, generalmente più deboli, sostituendosi a loro e appropriandosi della quota residua dei loro mercati di sbocco.

 

La Volkswagen si comporta come scrisse Marx 

 

Horst Neuman, capo del personale della Volkswagen ha annunciato con sicurezza che poiché nei prossimi 15 anni andrà in pensione un numero di dipendenti superiore alla media, i figli del boom economico del dopoguerra, circa 32.000, “avremo la possibilità di sostituire le persone con i robot ….non potremo sostituirli tutti perché occorre abbassare i costi...” A parte l'ottimismo sulla durata del capitalismo da qui a 15 anni, ci si domanda innanzitutto da dove Volkswagen, eliminando altro lavoro vivo, estrarrà plusvalore e dunque come farà profitti. E poi ci si illude alla Volkswagen che essa sarà la sola compagnia automobilistica a sostituire altro lavoro vivo con macchine? Diminuirà quindi anche la domanda. Marx ha scritto: “Gli operai costituiscono una parte proporzionalmente molto grande, sebbene non tanto grande quanto abitualmente si immagina…. dei consumatori” e che per ciascun singolo capitalista i suoi operai sono solo produttori e dunque tende a limitare il più possibile il loro salario o a sostituirli con macchine, mentre si illude che “la restante classe operaia gli stia di fronte nella veste di consumatore e di soggetto di scambio”.

 

Cala la vendita di trattori: tutto si tiene

 

Nel primo semestre del 2014 le vendite globali di trattori sono scese del 7% segnatamente a causa della debolezza della domanda in Brasile Cina e India, ma anche in Europa a partire dalla Francia.

Il prezzo di tutti i cereali è sceso a picco dall'inizio dell'anno e questo spiega il calo della domanda di macchine agricole. Ma tutto si tiene: il rallentamento dell'economia della Cina si ripercuote sui paesi esportatori di materie prime verso il “gigante” asiatico. Il prezzo del ferro è anch'esso in picchiata (Rio Tinto annuncia il taglio del 20% dell'estrazione) e così quello del petrolio, del rame, etc. A monte di tutto la minor richiesta di materie prime industriali ed energetiche da parte delle industrie di tutto il mondo a causa della loro impossibilità a generare plusvalore in misura sufficiente.

 

Petrolio: si arresta perfino la speculazione

 

Il prezzo del petrolio è in continua discesa: il Brent è intorno ai 90 dollari al barile, il 20% in meno rispetto al picco del giugno 2013. In altri tempi, per il capitale, migliori, le crisi in Nordafrica, Medio Oriente e Ucraina (oligarchi meno forti contro oligarchi più forti) avrebbero fatto impennare il prezzo del greggio. Se questo non accade è perché la caduta della domanda (se ne consuma meno per produrre) è generalizzata e dura ormai da diversi anni. Le vendite dei futures a lunga scadenza (2017) sul petrolio stanno a dimostrare che produttori e speculatori prevedono che il prezzo del Brent diminuirà ancora.

Giugno 2014

L'Argentina verso un nuovo fallimento

Nel 2005 e nel 2010 l’Argentina aveva rinegoziato la quota del proprio debito detenuta da investitori esteri. Alcuni fondi d'investimento, tra cui Elliot e Aurelius non avevano però partecipato alla rinegoziazione. Il 30 giugno il governo argentino, attraverso una banca newyorkese (la Mellon Bank), si apprestava a onorare il pagamento, 395 milioni di euro, ai possessori dei suoi titoli di stato che avevano aderito alla ristrutturazione. Ma la Corte Suprema USA ha ingiunto al governo argentino di pagare prima 1,33 miliardi di dollari dovuti ai fondi “avvoltoi” che non avevano accettato la rinegoziazione del credito che vantavano con Buenos Aires. Il governo argentino ha fatto ricorso, ma la Corte suprema USA lo ha rigettato. Se però Buenos Aires pagasse quanto deve ai fondi speculativi dovrebbe poi rispettare una specifica clausola secondo la quale, qualora l'Argentina avesse pagato quanto dovuto ai fondi speculativi, allora anche i creditori che avevano concordato la ristrutturazione avrebbero potuto chiedere maggiori rimborsi. Si tratterebbe a questo punto di un rimborso stratosferico: almeno 120 miliardi di euro e questo significherebbe il fallimento della nazione sudamericana con effetto a catena devastante per le economie di molte altre nazioni dell'area e non solo. Immediatamente la moneta del paese è caduta (a gennaio aveva già perso in un solo giorno il 10%); il differenziale tra i titoli di stato argentini e quelli USA è salito a 800 punti e la borsa di Buenos Aires ha perso il 6,6%. Alla base di tutto c’è ovviamente lo stato dell’economia reale del paese all'interno della generale crisi di produzione di plusvalore. Dal 2012 gli Investimenti diretti esteri in entrata in Argentina sono crollati di oltre il 60%, da 12 miliardi di dollari a soli 4,5 miliardi. Nel 2013 il surplus commerciale, connesso al ruolo di paese esportatore di risorse minerarie e prodotti alimentari, si è contratto del 27% in conseguenza della crisi mondiale. La variazione reale del PIL è passata da 8% nel 2011 a 2 % nel 2013 ed è prevista addirittura negativa (- 0,7%) per il 2014.

Il capitalismo non vola

La propaganda della borghesia cerca di mascherare dietro ragioni contingenti la crisi del capitalismo. Così la borghesia italiana punta a far credere che il dissesto dell’Alitalia sia dovuto solamente a sprechi e cattiva gestione. In realtà lo stato in cui versa la compagnia aerea nazionale è comune a tutte le compagnie aeree del mondo. Se la “ristrutturazione” dell’Alitalia, che altro non è che il suo adeguamento alle sempre più ridotte dimensioni del mercato, comporterà oltre 2.000 esuberi tra il personale, Lufthansa riduce di un terzo le aspettative degli utili per il 2014 e vara un piano di taglio dei costi con una riduzione dell’organico di 3.500 dipendenti; il titolo ha perso in borsa il 14%. Se si guarda il panorama degli ordinativi di aerei passeggeri non si registra altro che una serie di cancellazioni di contratti di acquisto, a partire proprio da Emirates, una delle compagnie più “floride” che ha cancellato un maxi acquisto del nuovo Airbus 350 Xwb.

In continua frenata la produzione automobilistica

La frenata della crescita dell’economia cinese si manifesta con particolare gravità nel ramo automobilistico. Nel decennio passato l’aumento della produzione di automobili (quasi per intero realizzata da joint ventures impiantate nel paese asiatico dalle multinazionali occidentali) aveva proceduto, in media, al ritmo del 17% all’anno: per il quadriennio 2014-2018, stando all’Automotive Industry Outlook 2014, il rapporto annuale di Alix Partners, il più autorevole istituto di studi sull’industria dell’automotive, il tasso di crescita si abbasserà addirittura di un terzo, al 6%. Per il 2019-2023 Alix P. prevede un tonfo al 2,5%. Si può capire che quelli di Alix P. debbano sperare di mangiare ancora una decina di anni e dunque scrivere che nel 2023 esisterà ancora un mercato dell'auto, ma intanto gli impianti del ramo automobilistico di tutto il mondo lavorano mediamente al 60% della capacità produttiva; solo in Germania e Inghilterra sono appena sopra il 70% che è il grado minimo per pareggiare i costi.

In calo il meccanotessile italiano

Vacilla anche uno dei settori in cui l'industria italiana detiene la leadership mondiale: la produzione di macchine tessili. Nel 2013 il fatturato di queste imprese è sceso del 6% a causa soprattutto del rallentamento della produzione tessile in Cina (che assorbe il 20% dell'export italiano di macchinari tessili) e di quella dell'India. Ma l'ACIMIT, l'associazione degli industriali italiani del ramo in questione, resta ottimista: il suo “Osservatorio” prevede uno sviluppo dell'industria tessile in Vietnam e Cambogia che dovrebbe garantire “un potenziale ventennale di crescita” alla loro filiera.

Aprile 2014

Di cosa è fatta l’economia della Russia: gas e petrolio

Per un decennio le esportazioni di gas e petrolio ed il conseguente accumulo di valuta estera, hanno sostenuto l’attivo della bilancia commerciale e dei conti dello Stato della Russia e l’apprezzamento del rublo. L’economia del paese si è basata esclusivamente su questo: l'85% delle esportazioni russe verso la Germania è costituito da materie prime energetiche (56% petrolio e 28% gas). Stessa situazione per quanto riguarda, ad esempio, l’interscambio con l'Italia: l'84% dell'export russo verso il nostro paese è dato da petrolio (47%) e gas (37%).  L'economia russa è dunque ridotta a pura esportatrice di materie primarie e quindi dipende dal fabbisogno di queste ultime da parte del ciclo industriale delle economie del centro capitalistico. Con il procedere e l’approfondirsi della crisi nelle economie del centro, che consiste esattamente nell’impossibilità di produrre plusvalore sufficiente a sostenere l’accumulazione, l’economia della Russia precipita verso il baratro: il PIL è caduto dal 6% del 2010 all'1,5% dell'ultimo trimestre 2013 e, per la prima volta, nel primo trimestre di quest’anno ha mostrato segno negativo: meno 0,5% rispetto all’ultimo trimestre del 2013. La fuga di capitali verso l'estero è arrivata nel 2013 a 70 miliardi di dollari. Sberbank, la banca pubblica, ha dichiarato che se la fuga di capitali raggiungesse i 100 miliardi di dollari, l'economia “evaporerebbe” e all’inizio dell’anno Goldman Sachs aveva previsto che nel 2014 usciranno dalla Russia capitali per 130 miliardi di dollari. Il rublo, rispetto al paniere dollaro-euro è in caduta libera da cinque anni.

Febbraio 2014

Meno produzione, crisi del trasporto marittimo

 

In un anno il costo dei noli delle navi mercantili si è ridotto mediamente del 30%. Ormai il prezzo dei noli copre appena i costi di esercizio. In particolare sono le navi cisterna per il trasporto dei prodotti della raffinazione del petrolio, quelli più legati alle lavorazioni industriali, a viaggiare in rosso. Nello stesso tempo incombe sul settore la minaccia della sovrapproduzione: alla fine del 2013 le navi in cantiere di portata compresa tra 10.000 e 60.000 tonnellate corrispondevano al 17% della flotta in navigazione.

 

 

La meccanica sempre più in affanno

 

Anche nel 2013 la produzione metalmeccanica è calata. Nell’Europa a 28 il calo è stato del 13% rispetto ai livelli pre-crisi, con punte del 30%in Italia, del 20% in Francia e del 37% in Spagna. In nessun paese, nemmeno ina Germania che pur beneficia dell’arretramento degli altri, c’è stato un recupero dei livelli di produzione pre-crisi. Per quanto riguarda l’Italia è tutta la produzione industriale a segnare l’ennesimo arretramento: meno 3% rispetto al 2012.  La situazione di crisi è ben rappresentata dall’ulteriore aumento della Cassa Integrazione: 414 milioni di ore equivalenti a 226.000 lavoratori, con una crescita del 7,5% rispetto al 2012.

 

 

Cina: pesante caduta delle esportazioni

 

Le dogane cinesi hanno reso noto che questo mese l’export del paese asiatico ha registrato un calo del 18%, portando in territorio negativo la bilancia commerciale di Pechino: un dato che ha immediatamente provocato una caduta generale delle borse asiatiche. Negli stessi giorni sono stati registrati forti cali nell’importazione di materie prime, a partire dal rame i cui acquisti da parte della Cina sono scesi del 30% dall’inizio dell’anno.

 

 

Il rallentamento dell’economia cinese si ripercuote sull’Australia

 

Negli ultimi dieci anni l’Australia aveva beneficiato dell’industrializzazione della Cina fornendole materie prime, in particolare ferro. Il rallentamento delle produzioni nel paese asiatico sta mettendo in crisi l’economia australiana: in particolare è l’industria dell’auto a soffrire. La General Motors, la Ford e la Toyota hanno deciso di smettere di produrre auto in Australia malgrado il governo abbia continuato negli ultimi anni ad estendere il sostegno all’industria automobilistica. La perdita di posti di lavoro, secondo l’Australian Manufacturers Workers Union, potrebbe interessare, considerando l’indotto e in particolare il settore dei laminati piani, quasi 15.000 lavoratori.

 

 

Si moltiplicano i segnali dello scoppio della bolla immobiliare cinese

 

Calano i prezzi delle case in tutte le principali città della Cina. BS Steel, il maggior produttore australiano di acciai per l’edilizia ha dichiarato che la domanda cinese di prodotti da costruzione sta crollando “in maniera drammatica”. Da almeno cinque anni l’edilizia e le infrastrutture rappresentano il “motore” dell’economia cinese, alimentate dai piani del governo per contrastare la stagnazione della domanda di beni di consumo e strumentali. Le azioni delle principali imprese immobiliari della Cina, China Resources Land Ltd.e China Overseas Land & Investment sono precipitate così come quelle della Anhui Cement Co., il più grande produttore di materiale da costruzione e di China Petroleum & Chemical Corp.

 

Gruppo di lavoro 21 febbraio 1848
 

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